Prom, 54 anni, occhiali da sole specchiati e abbigliamento alla moda in pieno stile occidentale. Nonostante il caldo torrido intorno ai 37 gradi indossa in scioltezza una giacca di pelle nera, perché – ci spiega – è comunque inverno visto che è dicembre. Prom parla un inglese praticamente perfetto e indossa un sorriso smagliante, sempre, ogni giorno, tutto il giorno.
Riflessi all’Angkor Wat |
Prom in cambogiano significa nonno, e lui i nonni se li è visti uccidere davanti agli occhi insieme ai genitori e a cinque fratelli e sorelle.
Cambogia, oggi. Prom è il nostro autista per i quindici giorni di permanenza in questo spettacolare Paese del Sud Est Asiatico e ci racconta la sua storia mantenendo sempre quel suo splendente sorriso.
Dopo un lunghissimo viaggio da Milano Malpensa, con scalo al Cairo, per arrivare a Bangkok e con un volo interno raggiungere Siem Riep, la nostra prima meta è l’Angkor Wat, un complesso archeologico imponente, affascinante, unico. Le rocce intrecciate alle radici degli alberi, in un abbraccio secolare, indissolubile, una simbiosi che permette a entrambi di sopravvivere, di rimanere in piedi. Le strutture di roccia sono così perfettamente integrate con la natura da sembrare essere nate esattamente così, un groviglio che ha senso nella sua assoluta casualità.
Angkor Wat |
Passiamo tre giorni interi a visitare i templi dell’Angkor Wat e sembra che il tempo non basti mai per vedere tutto. L’Angkor Wat oggetto anch’esso della follia distruttiva e omicida dei Kmer Rouge oggi continua a vivere anche grazie ai contributi e alle donazioni di diversi Paesi occidentali che ne hanno compreso il valore storico artistico.
Ma Siem Riep non è solo l’Angkor Wat. Siem Riep è anche la città del Museo delle Mine. Gestito da reduci della dittatura di Pol Pot il museo sorge in un bello spazio verde e silenzioso, quasi nascosto, intimo. Lungo il perimetro della struttura diversi pannelli mostrano immagini dure e originali: bambini e adulti, uomini e donne pesantemente mutilati dalle mine antiuomo. Quello che colpisce di queste foto, oltre alla crudezza della realtà che rappresentano, sono gli sguardi dei protagonisti, sguardi vuoti, rassegnati che stridono con i lineamenti armoniosi del popolo cambogiano. Non ci sono solo foto nel Museo delle Mine: ovviamente ci sono anche le mine. La nostra guida inizia a illustrarci le varie tipologie di ordigni custoditi nel museo: ci sono le mine che saltano in aria alla sola pressione e quelle che si innescano solo una volta sollevato il piede. È un sistema di sicurezza, ci spiega, così se uno dei soldati ne avesse malauguratamente calpestata una avrebbe avuto almeno una possibilità di evitare l’innesco. C’è silenzio: solo le parole della guida e il cinguettio degli uccellini fra le chiome degli alberi. È surreale, nessuno riesce a fiatare guardandosi intorno e prendendo coscienza di come l’uomo riesca a creare strumenti così devastanti per ferire e uccidere altri uomini. La guida ci chiede scusa e si siede visibilmente affaticata, tira su il gambale destro del pantalone per mostrarci la sua protesi che parte da sopra il ginocchio e finisce in una nuovissima scarpa sportiva calzata sul piede finto. L’altra gamba non è passata indenne al periodo dei Kmer Rossi: diversi frammenti di mine sono ancora lì, nella sua carne, ormai fanno parte di lui. Ci racconta anche lui sorridendo che il suo soprannome è il gatto, perché lui è morto nove volte su altrettante mine. Sorride ancora e ci indica una mina in particolare: la chiamano Butterfly, farfalla, perché il suo effetto devastante è dato da leggerissimi ma infiniti frammenti che a raffica colpiscono le vittime nel raggio di esplosione della mina. Le farfalle di Siem Riep, perché intorno alla città le mine erano tutte di quel tipo lì.
Il Museo delle Mine è autofinanziato e gestito interamente in modo privato anche grazie a donazioni spontanee e ha il preciso obiettivo di non permettere a nessuno di dimenticare. Il territorio è stato per gran parte bonificato, ma le mine ci sono ancora: non lasciate mai i sentieri battuti, raccomandano le guide, c’è ancora gente che muore calpestando vecchi ordigni mai disinnescati. Durante tutto il viaggio è capitato praticamente ogni giorno di incontrare persone mutilate e chi non lo era fisicamente parlando portava comunque nello sguardo una mutilazione se possibile ancora più profonda e dolorosa.
La navigazione è lenta e silenziosa nonostante la barca sia piena di persone, il caldo sole dell’inverno cambogiano ci accompagna per tutto il tragitto. Dopo un paio d’ore iniziamo a incontrare i primi villaggi galleggianti: tante piccole, poverissime abitazioni costruite su altrettanto piccole piattaforme di bambù che permettono a queste costruzioni di innalzarsi insieme al livello dell’acqua durante la stagione delle piogge. Scorgendo il nostro piccolo gruppo in mezzo alle persone del luogo, dai villaggi galleggianti tutti ci salutano e ci sorridono. I bambini si buttano nel fiume pur di provare a guardarci più da vicino. Queste, ci spiega il nostro simpatico nostromo, sono fra le persone più povere di tutto il Paese perché non hanno un campo di riso da coltivare. Il Mekong segna, nel bene e nel male, la vita di tutti gli abitanti dei Paesi che tocca, dai più famosi eventi della guerra del Vietnam a quelli più quotidiani di chi sul Mekong ci vive ogni giorno, sfidando le forze della natura e l’alternanza delle stagioni. Una fonte di vita, grazie ai pesci che offre, ma anche un elemento pericoloso che può spazzare via intere famiglie con la sua furia.
Colori, odori, sorrisi, bancarelle ovunque, con cibo di ogni genere, insetti fritti compresi, pentolame, vestiti usati e ciarpame vario. Bellissimo. Risaliamo sul pulmino per raggiungere un villaggio con case palafittate e tanti, tantissimi bambini che ancora una volta ci regalano i più bei sorrisi mai visti, ci vengono incontro, ci salutano e guardano i miei capelli biondi come se fossero la cosa più strana del mondo. Forse non li avevano mai visti.
Ci aspetta un lungo tragitto per raggiungere la provincia di Kampong Chang e approfittiamo per fare due chiacchiere con Prom che ci racconta ancora della dittatura di Pol Pot. A volte, ci dice, quando moriva un neonato lo si nascondeva e ce lo si divideva per sfamarsi. A volte i soldati se ne accorgevano e uccidevano tutti. Tutti. Nessuno poteva avere nulla, né cibo, né pentole, né vestiti. Il regime aveva addirittura abolito la moneta: tanto nessuno poteva compare nulla. Non si poteva avere una famiglia, gli uomini e le donne erano stati divisi fin da subito, i figli sottratti alle madri con il preciso intento di disgregare le famiglie. Il regime uccideva senza pietà chiunque venisse considerato di troppo per un qualunque, banale motivo. E uccideva brutalmente, non con le armi da fuoco – i proiettili erano costosi – ma con gli stessi strumenti usati per coltivare: chi non moriva di stenti, veniva colpito a morte e buttato in una fossa comune, a volte ancora agonizzante.
Prom ride fragorosamente. E io gli chiedo come ha fatto a superare un tale trauma, come fa a raccontare tanto orrore, mantenendo quel sorriso. Prom, con il suo inglese sempre perfetto, mi sorride ancora e mi dice che lui è un uomo fortunato, perché è vivo, perché non è mutilato e perché nel campo profughi dove è stato portato dopo a liberazione vietnamita ha conosciuto quella che ora è sua moglie e madre dei sui cinque figli. Oggi lui ha un lavoro che gli permette di mantenere al meglio la sua famiglia. Oggi lui è vivo.
Arrivati a destinazione dopo una breve navigazione arriviamo su un’isoletta che visiamo affittando delle biciclette. L’isola è un gioiellino, con una scuola piena di bambini dai 3 ai 12 anni che ci salutano in inglese con lo sguardo pieno di orgoglio per la bella figura fatta con le maestre. Ogni famiglia ha il suo piccolo appezzamento di terra per coltivare riso e ortaggi, ci sono alcune piccole guest house che possono ospitare i turisti che vogliono fermarsi sull’isola per godersi il silenzio di questo posto.
Sulla strada che ci porterà alla prossima tappa, ci fermiamo a visitare un piccolo villaggio famoso per le tessitrici della seta: alcune donne intrecciano con leggerezza fili colorati per creare complesse fantasie floreali su drappi di seta lucida e compatta, destinata alle migliori sartorie del Paese che ne faranno meravigliosi abiti tipici.
Il mio viaggio in Cambogia si conclude con una breve tappa di un giorno a Bangkok per poi prendere il volo di rientro. Il passaggio dalla Cambogia alla Thailandia mi fa sentire strana: per 15 giorni ho vissuto in mezzo alla gente del posto, ho mangiato con loro e cercato di cogliere la semplicità della loro vita. Se devo pensare a una cosa che mi ha affascinato in modo particolare di questo Paese è il silenzio che caratterizza molti dei posti in cui sono stata. A Bangkok tutto corre e tutto urla.
Lasciamo la Thailandia e rientriamo in Italia.
Oggi la Cambogia è un Paese che vuole rinascere, che vuole tornare a far parte del mondo e che può farlo proprio grazie ai sorrisi della sua gente, grazie a un immenso patrimonio storico-artistico riconosciuto non a caso anche dall’UNESCO e grazie a un preciso impegno per promuovere la conoscenza di questo Paese, del suo popolo e della sua storia e provare a dare nuovo impulso a un’economia per troppo tempo ferma.
Prom è un uomo fortunato perché oggi i suoi figli possono studiare l’inglese e un domani potranno lavorare come lui e contribuire a far conoscere il proprio Paese al resto del mondo.